Alle radici della materia - Come abbiamo capito di cosa è fatto il mondo

Di Edwige Pezzulli
  • Materie coinvolte: Fisica, Scienze Naturali

La storia che ha portato alla scoperta dell’atomo ha aggregato per secoli la comunità scientifica attorno ad alcune domande fondamentali. Per trovare le risposte sono stati necessari sforzi tecnologici, scientifici ma anche concettuali: basti pensare che fino a poco più di 100 anni fa, c’erano ancora dei premi Nobel ai quali l’idea di atomo non andava proprio giù.

 
Quante volte si può spezzare a metà un bastoncino? Esiste un numero a cui dovremmo fermarci, oltre il quale niente si potrebbe più dividere?
Di fronte a questa domanda, nell’antichità, si contrapposero due visioni: secondo alcuni filosofi, come Aristotele e Platone, la materia era continua, cioè divisibile un numero infinito di volte. Più spezziamo il bastoncino, più troveremo pezzettini via via sempre più piccoli. Per altri, invece, l’idea di dividere la materia all’infinito non funzionava un granché: a furia di dividere, saremmo dovuti arrivare a un granulo indivisibile, all’elemento costituente, al mattoncino su cui tutto si fonda: l’atomo.

 

Alle origini dell’idea

Il concetto di atomo si sviluppò per la prima volta nell’antica Grecia. Intorno al V secolo a.C. i filosofi greci Democrito e Leucippo, e più tardi il romano Lucrezio, ipotizzarono che la materia fosse costituita da tanti piccoli mattoncini di dimensione finita che vennero chiamati atomi (dal greco a-tomos, indivisibile). «Nulla se non gli atomi e il vuoto», afferma Democrito nei suoi frammenti. È infatti il movimento degli atomi all’interno di un infinito spazio vuoto, e la combinazione degli uni con gli altri, che permetteva secondo gli atomisti antichi la formazione dei diversi oggetti e stati della materia. Ed è proprio il vuoto, per il quale non c’è posto nel quadro della natura disegnato da Aristotele, a scatenare l’opposizione violenta all’atomismo delle origini.
L’ipotesi atomica fu un’intuizione eccezionale. Eppure questa semplice idea entrerà nel mondo della scienza molto tardi. Per più di 2000 anni, infatti, nessuno investigò davvero la struttura della materia, complice l’atteggiamento dogmatico verso il pensiero di Aristotele che aveva influenzato profondamente la cultura e la visione del mondo occidentale.
L’atomo verrà così lasciato in un cassetto e scordato lì, fino all’epoca moderna.

 

L'ingresso nella chimica

Nella seconda metà del 1600 l’irlandese Robert Boyle riprese in mano il concetto di atomo, considerando superata l’idea della natura aristotelica. Nel suo libro Il chimico scettico, Boyle contestò la fiducia cieca riposta nella parola di Aristotele e ripresentò al mondo l’ipotesi che la materia fosse invece formata da atomi e agglomerati di atomi in movimento, e che ogni fenomeno non fosse altro che il risultato dell’interazione tra queste particelle.
La diatriba tra chimici atomisti e sostenitori della continuità della materia andò avanti per qualche altro decennio. Alla fine del Settecento vennero formulate le leggi ponderali di Lavoisier, Proust e Dalton, relazioni in grado di descrivere le regolarità con cui gli elementi si combinano nelle reazioni chimiche. Queste regolarità si spiegavano in modo abbastanza naturale immaginando che i vari elementi fossero costituiti proprio da atomi. Non si stava dando, quindi, una dimostrazione effettiva della loro esistenza, ma si proponeva un criterio efficace per spiegare le osservazioni, e tanto bastò ai chimici per iniziare ad adottare l’ipotesi atomica come buon modello. Affinché la reale esistenza degli atomi venisse universalmente accettata dall’intera comunità scientifica, e in particolare dai fisici, occorrerà però aspettare ancora un secolo.

 

La mela della discordia

L’esistenza degli atomi sollevava una serie di dilemmi concettuali profondi che non interessavano i chimici, ma che per i fisici rappresentavano un bel grattacapo.
Se la materia fosse composta da atomi, dovremmo poter ricostruire le leggi e i comportamenti del mondo macroscopico a partire dal movimento di questi ultimi (e delle molecole cui danno origine), descritto dalle equazioni della meccanica classica. La dinamica che descrive queste particelle è quindi la stessa che governa anche i corpi più grandi, per esempio il movimento di una pallina che cade verso terra. Secondo la meccanica classica, se filmassimo una pallina che cade a terra, rimbalza perfettamente e poi torna nelle nostre mani, potremmo guardare il video riavvolgendo il nastro e non noteremmo nessuna differenza. Il moto della pallina, così come quello degli atomi, è infatti reversibile. Eppure in natura esistono fenomeni irreversibili. Una volta mescolato il caffè con il latte, per esempio, otteniamo del caffellatte, e non si osserva mai il caffè e il latte separarsi spontaneamente. Se descrivessimo però la bevanda attraverso il moto dei suoi atomi, girando il cucchiaino dovremmo poterla vedere passare tanto dal latte e caffè al caffelatte, quanto viceversa.
Come è possibile allora che il movimento reversibile degli atomi dia origine a fenomeni irreversibili della materia? Perché, quindi, esistono fenomeni macroscopicamente irreversibili?

 

Una spiegazione irreversibile

Questo apparente paradosso richiese mezzo secolo di ricerche teoriche e sperimentali per essere risolto. Il protagonista principale della svolta concettuale fu Ludwig Boltzmann, un fisico austriaco sui generis. Animo inquieto, tormentato, non particolarmente desideroso di onori - tanto da rifiutare il titolo nobiliare offertogli dall’imperatore - Boltzmann era un visionario. L’esito della sua lunga ricerca, che portò alla creazione di una nuova branca della fisica, la meccanica statistica, passò per l’introduzione del concetto di probabilità.
Il motivo per cui esistono fenomeni irreversibili, fenomeni quindi che vanno solo in una certa direzione temporale, è che pur essendo possibile osservarli tornare indietro, ciò è estremamente improbabile. In principio, potremmo assistere a una tazza che viene rotta in mille pezzi e si ricompone perfettamente nella tazza originaria. Ma la probabilità che questo avvenga è infinitesima, a causa del numero enormemente alto degli atomi che la compongono, e perciò diventa di fatto irrealistico osservare il fenomeno al contrario.
Parafrasando Boltzmann, dubitare dell’atomismo perché non osserviamo mai una tazza rotta ricomporsi da sola, sarebbe come mettere in discussione la validità della teoria delle probabilità solo perché non si vede mai una scimmia comporre la Divina Commedia digitando lettere a caso. La scimmia potrebbe anche riuscirci, ma le combinazioni possibili sono talmente tante, che la probabilità che appaia la Divina Commedia è, in pratica, zero.

 

Vedere gli atomi

Nel 1827 il botanico scozzese Robert Brown scoprì che alcune particelle in sospensione in un liquido si muovevano continuamente in direzioni casuali. Brown all’inizio pensò che si trattasse di una forza vitale, finché non osservò il movimento anche in frammenti di piante morte e pezzi di vetro. La ragione di questo moto, che venne poi chiamato moto browniano, doveva essere allora un’altra, una ragione fisica. La spiegazione arrivò nel 1905 ad opera di Albert Einstein: utilizzando gli strumenti teorici della meccanica statistica, Einstein dimostrò che questo movimento disordinato era dovuto agli urti invisibili tra i granuli di polline e le molecole. Gli atomi, quindi, dovevano esistere davvero. Nel 1908, tre anni dopo, con un enorme sforzo sperimentale, il fisico francese Jean Perrin confermò le previsioni di Einstein. Come ammise uno dei principali avversari dell’atomismo, il fisico e filosofo viennese Ernst Mach, il lavoro di Perrin consentì finalmente di “vedere” gli atomi. Dopo questo, non era più possibile dubitare che la teoria atomica, ipotizzata più di duemila anni prima , non fosse in grado di descrivere la realtà.
La scoperta degli atomi rappresenta una delle più importanti conquiste della scienza moderna che ha aperto la strada a una comprensione più profonda della natura, nonché allo sviluppo tecnologico alla base del mondo che conosciamo oggi. Nel suo libriccino I sei pezzi facili, il fisico statunitense Richard Feynman scrisse: «Se in un cataclisma andasse distrutta tutta la conoscenza scientifica, e soltanto una frase potesse essere trasmessa alle generazioni successive, quale affermazione conterrebbe la massima quantità di informazioni nel numero minimo di parole? Io credo che sarebbe l’ipotesi atomica secondo cui tutte le cose sono fatte di atomi, piccole particelle che si agitano con un moto perpetuo, attraendosi quando sono un po’ distanti una dall’altra, ma respingendosi quando sono schiacciate una contro l’altra. In questa singola frase c’è un’enorme quantità di informazioni sul mondo che ci circonda, se soltanto ci si riflette sopra con un po’ di immaginazione».