9 ottobre. Il disastro del Vajont

Come entra una «catastrofe» in un calendario civile? Spunti a partire da alcuni libri, più o meno recenti.

La data, gli eventi

Successe al confine tra Veneto e Friuli. Il Vajont è un torrente che scorre nel Friuli occidentale e affluisce nel Piave all’altezza di Longarone, in provincia di Belluno. Tra il 1957 e il 1960, la SADE (Società Adriatica di Elettricità) vi costruì una grande diga, salutata allora come un gioiello dell’ingegneria italiana, per creare un vasto bacino artificiale.

La sera del 9 ottobre 1963, alle 22,39, un pezzo del monte Toc, una frana di quasi 300 milioni di metri cubi, precipitò ad alta velocità (forse 70-90 chilometri all’ora) nel bacino provocando un’onda altrettanto colossale: cinquanta milioni di metri cubi si alzarono dal lago; questa massa d’acqua colpì le frazioni di Erto e Casso (allora provincia di Udine, oggi Pordenone) che stavano di fronte alla frana; poi, per la maggior parte, scavalcò la diga e si abbatté nella valle sottostante: in pochi minuti circa 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti investirono Longarone (Belluno) con una forza tale da spazzarlo via. Il bilancio: almeno 1910 vittime (quasi 500 i minori di 15 anni), questa la cifra ufficiale stabilita in sede giudiziaria. Sullo sfondo, oltre alla diga rimasta in piedi, la cessione della SADE all’ENEL, nel quadro della nazionalizzazione dell’energia elettrica (stabilita per legge nel dicembre 1962). È questo il motivo per cui lo Stato, nel processo che si svolse per appurare le responsabilità e stabilire i risarcimenti, si trovò come ha scritto di recente lo storico Salvatore Botta, «nella singolare posizione di vittima e di complice: è chiamato in tribunale a rendere giustizia ai morti e ai sopravvissuti, ma allo stesso tempo deve difendere gli imputati della ex SADE dalla quale ha acquistato la diga (la loro condanna significherebbe aprire un contenzioso di grandi dimensioni per il risarcimento dei danni)».

 

Che cosa fu il Vajont

Al di là delle sentenze (il processo penale si chiuse nel 1971, quello civile si trascinò addirittura fino al 2000), oggi sappiamo bene che non fu una catastrofe naturale, la tesi sostenuta subito da chi aveva interesse a scaricare ogni responsabilità e trovò appoggi in gran parte della stampa nazionale, comprese le «grandi firme»: Dino Buzzati (per di più bellunese), Giorgio Bocca, Indro Montanelli... Fu invece un evento previsto da chi poi l’avrebbe subito e almeno sospettato, temuto, anche da alcuni tra quelli che avevano progettato e realizzato un gigantesco bacino idroelettrico in una valle che, per la conformazione (questa sì) naturale del suolo, non lo permetteva. Eppure gli interessi industriali, quelli del massimo profitto, prevalsero su ogni principio di precauzione, senza trovare alcun argine nella politica e nei poteri pubblici, pronti più a rispondere a quelli privati che non a tutelare la cittadinanza. Da Venezia, da Roma, le sedi dei centri decisionali, si giocò un azzardo sulla pelle viva di alcune migliaia di persone, «montanari» inascoltati.

Come ha scritto Maurizio Reberschak, il primo storico a occuparsi di questi eventi, il Vajont fu sì «una catastrofe», ma «sotto l’aspetto epistemologico»: un caso di forzatura dei limiti naturali da parte dell’intervento umano, in un quadro «di incremento di politica energetica, di rapporti fra potere privato e potere pubblico, di compenetrazioni tra imprese private e istituzioni statali, di emergenze delle politiche delle multinazionali».

All’indomani della sciagura, la giornalista dell’«Unità» Tina Merlin (1926-1991), bellunese, che negli anni precedenti si era fatta portavoce degli avvertimenti e delle proteste espresse dalle comunità locali, che vedevano il loro mondo sgretolarsi letteralmente sotto i loro occhi e i loro piedi, scrisse (documento 1) che si trattava di un «genocidio». Intendeva così sottolineare sia l’entità della distruzione e delle perdite (Longarone contò quasi 1500 vittime sui circa 4500 residenti effettivi in paese), sia la prevaricazione dei grandi interessi economici industriali ai danni della popolazione di una provincia montana e contadina, povera e periferica: il «miracolo economico» aveva cominciato appena a sollevarne una parte dalle dure condizioni di vita tradizionali, e già presentava il conto a tutti. Un concetto spiegato in altre parole dallo storico dell’ambiente Marco Armiero in un libro recente: «Chi paga il conto del disastro non è qualche malcapitato estratto a sorte nella grande lotteria della storia; piuttosto sono subalterni, marginali, comunità che non valgono nulla se non come luoghi di estrazione di valore per il profitto di pochi in nome del preteso interesse generale».

 

Chi ricorda?

Come già notava Reberschak nel 2003 (documento 2), a lungo il 9 ottobre è stata una data inscritta solo nel calendario civile locale; e per molte delle vittime che venivano da fuori (tra cui lavoratori della SADE in servizio quella notte), ci fu solo il calendario delle tristi ricorrenze di famiglia.

A farlo entrare nel calendario nazionale ci vollero un attore, Marco Paolini, e un monologo teatrale (scritto dallo stesso Paolini con il regista Gabriele Vacis e alcuni altri collaboratori), una orazione civile che, attingendo ai documenti e alla bibliografia, raccontava quanto era successo, dal primo progetto alla tragedia, passando per la vana resistenza della popolazione locale e le complicità dei «tecnici», dell’università e della burocrazia dello Stato italiano (sotto diversi regimi: dal fascismo alla Repubblica). Messo in scena dal 1993, per lo più nel Nord-Est, in occasione del trentaquattresimo anniversario, il 9 ottobre 1997, il monologo fu trasmesso in prima serata dalla televisione pubblica, in diretta dalla diga. Da qui parte la breve sintesi che Armiero ha dedicato al Vajont nel 2023: possibile che lui, quella sera davanti alla tv, non ne sapesse ancora nulla? – «in cinque anni di liceo classico e altrettanti di laurea in lettere moderne – nel mio caso a indirizzo di storia contemporanea – del Vajont non c’era traccia? In effetti c’era voluto un attore di teatro per restituire il Vajont alla nostra memoria collettiva».

 

La memoria attiva

C’è un’altra questione da cui parte Armiero, ed è quella della memoria viva e attiva. Il Vajont ci sollecita oggi, ogni giorno, in ogni contesto, a riflettere sui rapporti tra scienza, tecnica e poteri; sulle gerarchie dei saperi e delle conoscenze (quelli dei tecnici, quelli dell’università, quelli che vengono dall’esperienza concreta della comunità coinvolte); insomma su ambiente e scelte politiche e sociali, avvisando che ogni campagna ambientalista è una battaglia politica. Nel Vajont, scrive in conclusione Armiero, «non ci sono dei generici umani che abusano della natura, ma un certo modo di concepire e organizzare le relazioni socioecologiche che decide chi e che cosa sia sacrificabile in nome del profitto. Come sempre […] si accompagna la costruzione di una infrastruttura narrativa […] che invisibilizza e/o neutralizza il disastro mentre stabilisce criteri di legittimità tra saperi e regimi della memoria. […] Il mondo visto dal Vajont, il nostro passato e il nostro futuro, possono certo far paura ma possono anche dare una speranza. Non c’era niente di scritto né di inevitabile al Vajont. Non occorrevano neppure innovazioni tecnologicamente fantascientifiche; né la scienza era particolarmente incapace di capire i fenomeni. Indubbiamente, c’erano incertezze al Vajont, e tuttavia potevano essere utilizzate come motivo di prudenza e non come scuse per azzardi».

 

Che cosa è, oggi, il Vajont

Nel 2008 l’Unesco valutò il Vajont come il primo di dieci disastri legati al rapporto tra esseri umani e natura provocati da errori umani e scientifici. Tra il 2021 e il 2023 la stessa organizzazione internazionale ha inserito nel registro della «Memoria del Mondo» i documenti del processo penale che giudicò le responsabilità della sciagura (la sentenza fu emessa nel 1971), realizzandone la digitalizzazione completa.

A sessant’anni di distanza, una memoria locale entra nel calendario civile del mondo. Come scriveva Reberschak già nel 2003: «Il Vajont, da simbolo iniziale di disprezzo della natura e di distruzione dell’uomo, si è trasformato in modello attuale di etica».

 

Bibliografia essenziale


  • Marco Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, trad. di Francesco Peri, Einaudi, Torino 2013 (ed. or. inglese 2011); al Vajont sono dedicate le ultime pagine del libro.

  • Marco Armiero, La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro, Einaudi, Torino 2023; da questo libro tutte le citazioni di Armiero nella scheda.

  • Salvatore Botta, Macerie d’Italia. Storia politica di una nazione in lotta contro la natura, Mondadori Education, Milano 2020 (capitolo 3, «Vajont: fine di un’illusione», pp. 51-69).

  • Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Cierre, Sommacampagna (Verona) 1997 (prima ed. 1983).

  • Marco Paolini, Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano 1997 (nuova ed. 2013)

  • Marco Paolini, Vajont 9 ottobre ’63, Einaudi, Torino 1999 (con questo titolo sono state distribuiti i video dello spettacolo, prima in videocassetta e poi in dvd).

  • Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, con saggi di Maurizio Rebeschak, Ivo Mattozzi, Mario Isnenghi, Mario Fabbri, Fiorello Zangrando, Ferruccio Vendramini, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2003, prima edizione 1983.


Non diamo conto qui dei tanti volumi, saggi e inchieste sulla ricostruzione o sulla costruzione dei luoghi distrutti (nacque un nuovo Comune di Vajont, in un territorio scorporato da quello di Maniago, destinato a chi aveva dovuto abbandonare Erto e Casso) e sui traumi dei sopravvissuti. Le risorse online sul Vajont sono ancora più copiose. Ci limitiamo a rimandare ai reportage televisivi dell’epoca raccolti e messi a disposizione dalla Rai, sul canale RaiPlay, sotto il titolo Vajont, un disastro italiano: https://www.raiplay.it/programmi/vajontundisastroitaliano

Per le notizie relative alla digitalizzazione dell’archivio processuale: